L’editoriale

AMBIENTE, CAPITALE E LAVORO: A CHI SERVE LO STATO DI EMERGENZA?

Foto agenzia Dire

Cosa sta succedendo alla nostra democrazia? Bisogna capire quale mutazione istituzionale sta subendo il Paese dentro la pandemia. La proroga dello stato di emergenza Covid è un passaggio molto delicato se a questo aggiungiamo l’allarme lanciato dal ministro dell’Interno su possibili tensioni sociali in autunno.

Dall’emergenza sanitaria a quella economia e sociale, questo è il trapasso che mette sul tavolo una partita a scacchi fatta di allarmismi e scontro tra scienziati, pressioni delle imprese di capitale, rivendicazioni operaie e subalterne, lo svuotamento dell’attività parlamentare e il fiume di soldi delle organizzazioni mafiose.

A chi serve lo stato di emergenza? Rispondere a questa domanda significa capire in che paese ci ritroveremo a settembre. Lo scontro parte dagli stessi scienziati con Giulio Tarro in testa,  molto in voga tra stampa e partiti sovranisti, che vuole “i nomi degli esperti” che hanno permesso questa decisione utile solo a “scopi politici”. Gli scopi di chi?

Il potere dei decreti

L’avvocato Giuseppe Libutti di “Attuare la Costituzione” lo ripete a suon di tweet: “fate tornare al loro lavoro antecedente tutti i manager che avete chiamato in questo periodo e restituite il ruolo di centralità al Parlamento. Siamo pur sempre in una democrazia parlamentare. Il professore di Storia contemporanea e attivo editorialista Paolo Macry cita Sabino Cassese, “un acuto storico dello stato, un giurista tra i più attenti, un ex giudice della consulta, un commentatore lucidissimo” che oggi interviene (Corsera, Sole24ore, HuffPost) per denunciare lo strappo formale e i gravi rischi sostanziali della annunciata proroga dell’emergenza. Altri nomi di peso come Ceccanti e Mirabelli hanno detto cose simili. Attenzione! O, con il linguaggio del PCI d’antan: vigilanza! Anche Orban, ricorda Cassese, all’inizio faceva il liberale”.

Una deriva ungherese a botta di decreti è quello che teme una vasta area trasversale che va dai liberal alla sinistra storica e quella più radicale.

La semplificazione complica la vita: ambiente, capitale e lavoro

Il decreto Semplificazione serve a sciogliere molti lacci per gli appalti e le opere pubbliche. Alzare la soglia per gli affidamenti diretti e mettere mano a una maggiore libertà d’azione per le imprese. Ma è davvero una buona idea? È ormai ufficiale l’offensiva mafiosa che con i propri capitali sta invadendo l’economia “pandemica” acquisendo imprese e gestendo gli affari illeciti. Chi controllerà? E soprattutto quali garanzie sugli impatti ambientali delle opere pubbliche, la loro fattibilità e sicurezza (vedi Ponte Morandi) e quali garanzie per i lavoratori.

Proprio questi ultimi, la vasta area di disgregazione operaia, precaria, impiegatizia e artigianale, oggi vuole esattamente altro. In tutti i sondaggi emerge la richiesta di detassare il reddito da lavoro mentre chi è in campagna elettorale, vedi lo sceriffo De Luca, vuole detassare gli utili. In mezzo è partita una nuova e puntuale campagna contro il “dipendente pubblico fannullone” che con lo “smart working” si “ruba lo stipendio”. Nomi storici dell’opinionismo di Stato come Gramellini e Ichino.

E il Mezzogiorno? Questa è un’altra partita dentro questo scontro. La richiesta puntale di risorse al Nord che non solo con la sua compagine leghista, classe dirigente responsabile di un disastro sanitario in Lombardia, ma anche con quella Dem (vedi Sala e Bonaccini) batte cassa scrivendo il capitolo della disuguaglianza territoriale strutturale nell’assetto politico e istituzionale degli ultimi 20 anni.

Alla fine, poi, ci sono gli italiani che vivono di lavoro e sfruttamento. A Napoli lo scorso giovedì ci sono stati cortei e blocchi operai. Oggi un’assemblea ha riunito i sindacati di base e anche delegati della Fiom e pezzi di Cgil per la costruzione di uno sciopero generale. C’è un grande scontro sociale all’orizzonte e, citando definizioni del ‘900, di classe dentro questa pandemia.

A chi serve lo stato di emergenza? Osservare e analizzare oltre la cronaca sarà il compito dei prossimi mesi per fornire un racconto preciso su quale virus sta rischiando di contagiare il Paese.

NIENTE SHOW, SALVINI FUGGE DA MONDRAGONE: POTEVA SPIEGARE QUEI LEGHISTI INDAGATI PER CAMORRA

Era tutto pronto per lo show. Il copione è già scritto a Mondragone. Titolo del film: “Il giorno dello sciacallo”. Matteo Salvini si riversa nella cittadina del litorale casertano per fare campagna elettorale sulla pelle di chi vive nei ghetti. Invece il leghista viene letteralmente assediato, preso a lanci di acqua de centinaia di manifestanti ed è costretto ad andar via senza nemmeno fare il comizio. Manganellate, scambio di insulti e provocazioni, un Matteo visibilmente irritato dal mancato show.

Immediatamente i contestatori sono stati identificati come “bestie”, “appartenenti ai centri sociali” e fiancheggiatori della camorra dalla “bestia comunicativa”. Eppure il lumbard dovrebbe spiegare agli elettori, a proposito di camorra, su uno dei suoi portavoce in Campania, Sabino Morano indagato nell’ambito dell’operazione Partenio 2.0 per associazione a delinquere: 23 persone arrestato per il controllo degli affari illeciti ad Avellino.

A ottobre 2018 un altro esponente della Lega Nord attivo nel nolano, Bartolomeo Falco, fu arrestato per traffico di droga: secondo la Dda “era ben inserito nell’organizzazione criminale dedita allo spaccio”.

Insomma, Salvini prima di scendere al Sud e agitare la bandiera della legalità a Mondragone doveva informarsi su chi sono alcuni suoi referenti in Campania. L’elenco si allunga se si citano tutti gli esponenti leghisti che sono sotto inchiesta per rapporti con ‘ndrangheta e mafia in Calabria e Sicilia.

Il leader leghista ha provato a battere la cassa dei voti in vista delle regionali in una difficile battaglia con lo sceriffo De Luca che già la settimana scorsa aveva messo alla gogna i rom “che non si sa come vivono”.

Mondragone, come tutte le periferie del Mezzogiorno e del Paese, vive decenni di abbandono. Anni di politiche neoliberiste che hanno trasformato questi posti in hub per lo sfruttamento, per il controllo del territorio e per la devastazione ambientale. Oggi era diventato il set per la propaganda del sovranismo alla pummarola in salsa verde ma le cose sono andate diversamente.

Insomma, sui teleschermi era pronto il remake de “Il giorno dello sciacallo” ma niente ciak. Stavolta è andata male e chi soffia sul fuoco delle tensioni rischia poi di bruciarsi. Come recitava lo striscione “steveme scarz ‘a sciem” (eravamo scarsi a scemi, ndr).

ELEZIONI, IN CAMPANIA NON CAMBIA MAI NIENTE: L’INVISIBILE VS LO SCERIFFO 10 ANNI DOPO

L’eterno ritorno del sempre uguale. Cinque anni dopo, anzi no. Dieci anni dopo. L’invisibile contro lo sceriffo. Caldoro vs De Luca: 2010, 2015, 2020. Questo il decennio dove una classe dirigente in Campania non è stata di sfornare leadership e, soprattutto, dove si farà una campagna elettorale sulle macerie sociali ed economiche.

Non è solo una questione di Covid-19 che ha aggravato le condizioni dei campani sotto il profilo del reddito e della sopravvivenza. Emerge un dato allarmante dove i laureati emigrano e qui una generazione continua a gestire la cosa pubblica, a destra e sinistra in un teatrino su cui incombe il controllo del territorio da parte delle mafie.

La sanità è sotto gli occhi di tutti. Dal commissariamento straordinario alla gestione in diretta facebook abbiamo denunce su quali sono le condizioni di lavoro del personale e il pericolo costante delle infiltrazioni camorriste come nel caso dell’Asl Napoli 1. Su sud reporter abbiamo sentito primari, medici di base, quelli impegnati nelle associazioni di categorie, attivisti per la salute: il quadro è sconfortante su liste di attesa e gestione amministrativa, con o senza emergenza, salvando solo la grande professionalità del personale campano che in alcuni casi è vera e propria eccellenza.

Il dramma lavoro con i suoi dati su disoccupazione, smantellamenti di distretti industriali, lavoro nero, morti bianche, sfruttamento in tutte le filiere dal commercio all’agricoltura.

La terra dei fuochi prima negata e poi ridicolizzata come esercizio di pochi attivisti e scienziati è una realtà disarmante: discariche, roghi, smaltimenti illeciti, fiumi e mari inquinati, rifiuti industriali senza controllo, le mani dei clan. E in Campania abbiamo 5mila morti l’anno di tumore.

L’elenco di cosa non è mai cambiati in decennio dal primo Caldoro vs De Luca è lunghissimo. Sullo sfondo si muovono alleanze e quelle sacche clientelari che si scoperchiano ad ogni inchiesta giudiziaria ma ormai a “babbo morto”. Resta la desolazione di una nuova sfida elettorale dai tassi di astensione prevedibilmente altissima. Chi può essere l’outsider che ferma questa giostra? Fuori dai giochi Luigi de Magistris e una sinistra ancora debole in termini di leadership resta Valeria Ciarambino: avrà la forza di competere il Movimento 5 Stelle al governo e con i sondaggi che lo inchiodano al 15-17%?

Vedremo cosa accadrà con la netta sensazione di vedere i titoli di coda di un film già visto. Come cantava Pino Daniele: E adesso vuoi una sedia/ Ma una sedia elettorale/E con i piedi gonfi come hai voglia di votare/E poi mi levi luce/Perché sai che son capace/E poi mi levi vino/Pecchè si’ nu figlio ‘e bu* 

CRISI, PANDEMIA E RAZZISMO: SIAMO IL PAESE DELLE BELLE STATUINE

SE VUOI UN MONDO NUOVO INIZIA A CHIEDERTI COSA SEI DISPOSTO A PERDERE

Tutto è tornato come prima ma il mondo non è quello di febbraio. L’ondata di proteste in America e nel mondo per la morte di George Floyd ci dicono questo. Diritti, ambiente ed economia sostenibile sono i pilastri della domanda per un mondo nuovo. A Napoli si sono svolte tre manifestazioni su questi temi ieri, due le abbiamo raccontate qui su sudreporter. Ma è sufficiente la domanda di un mondo nuovo senza “l’uomo e donna nuovi”?

A inizio ‘900 le grandi ideologie abbracciavano soprattutto la sfera del cambiamento umano come prospettiva ideale di costruzione della società e della propria esistenza. Chiedere uguaglianza, diritti e libertà significa praticare quei valori prima che enunciarli. Oggi c’è una distanza tra quello che si professa e ciò che si è. “Il Covid-19 ci cambierà”, si diceva. Non è proprio così. La rivendicazione di un diritto passa per la costruzione pratica di esso nelle relazioni umane, sociali, di genere. Il nostro rapporto tra i consumi e l’ambiente è parte del ragionamento e del problema quando si rivendica economia sostenibile.

I regimi, autoritari o “democratici”, si rafforzano quando dai movimenti viene meno l’idea dell’ “Uomo nuovo” mentre si rivendica un altro mondo possibile. Basta guarda come sia naufragata l’amministrazione “rivoluzionaria” di De Magistris o ciò che doveva essere il “neo municipalismo” della democrazia partecipata con la città di Napoli che oggi è orfana di una direzione, soprattutto tra le fasce più deboli delle periferie.

Si guarda alle proteste negli Stati Uniti senza tener conto che nel nostro Paese quella partita si gioca, in proporzione, in tanti ambiti: i braccianti sfruttati nelle campagne dal caporalato, le condizioni dei centri di detenzione e di accoglienza straordinaria, la forbice tra Nord e Sud che ha creato un divario enorme di risorse e di investimento pubblico. C’è una incapacità di fondo di mettere mano dentro la carne viva delle contraddizioni e c’è la difficoltà di cambiare veramente approccio cultura, politico e sociale.

Intanto le piazze si infiammano e si affacciano i nuvoloni oscurantisti di concezioni autoritarie e discriminanti che alimentano ingiustizia sociale. No, non sarà una manifestazione o una tornata elettorale a cambiare le cose. Bisogna capire cosa siamo disposti a perdere per cambiare prima noi stessi e poi veramente le cose.

IL PAESE SULL’ORLO DEL BARATRO: DAL RECOVERY FUND DARE 40 MILIARDI A POVERI E LAVORATORI

Ci vorranno ancora mesi di trattative. Poi nel nostro Paese arriverà un fiume di soldi. Con il Recovery Fund sono 172 miliardi stanziati dall’Unione Europea per l’emergenza Covid-19 in Italia, la metà sono a fondo perduto mentre 91 in prestito. Per l’Italia arriveranno 81 miliardi da poter spendere in questa crisi senza precedenti.

La metà degli italiani ha difficoltà a pagare il fitto di casa e la rata del mutuo. Secondo le previsioni più rosee entro il 2020 si perderanno 500mila posti di lavoro, secondo Confindustria 1 milione di persone perderanno l’occupazione. Intanto i ritardi su misure tampone come cassa integrazione e bonus hanno acuito la sofferenza sociale di famiglie monoreddito, partite Iva, pensionati con figli a carico, lavoratori dipendenti e persone con lavori informali o a nero.

Negli ultimi due mesi, dal 3 marzo al 5 maggio, la porta dell’Help center di Roma Termini si è aperta quasi 1300 volte: ad entrare per chiedere aiuto non solo persone senza dimora, ma anche operai rimasti senza lavoro, famiglie in cerca di cibo e vestiti.

Le piazze si riempiono di proteste di diversi settori come i lavoratori dello spettacolo, dei disoccupati e l’estrema destra che soffia sul fuoco delle tensioni sociali. È di oggi la notizia di un cameriere che si è tolto la vita dopo aver ricevuto la notizia dei tagli al personale nell’albergo dove lavorava. Si sta abbattendo una crisi che al confronto quella del 2008 è una passeggiata.

Che fare?

Serve un Piano che dirotti almeno 40 miliardi del Recovery Fund alle fasce povere e alla detassazione del costo del lavoro, tenendo conto dei maggiori indici di fragilità sociale nel Mezzogiorno. Bisogna rafforzare un reddito di cittadinanza e dare respiro ai redditi da lavoro e da pensione oltre a quelli delle piccole imprese, dell’artigianato, del commercio e del terzo settore.

Banche e associazioni di impresa chiedono che nell’attesa il Governo presenti un pacchetto di riforme per rilanciare la domanda: “utilizzare fin da subito tutte le risorse e gli strumenti che l’Europa ha già messo a disposizione, a partire dai fondi per sostenere i costi diretti e indiretti dell’emergenza sanitaria”.

Ora il Governo deve decidere qual è la politica economica da attuare. Se vuole continuare il dettato liberista del “dare i soldi ai poveri è assistenzialismo, darli alle imprese è sviluppo” oppure cambiare del tutto gli interessi in gioco. Ci sono le mafie che stanno operando un’offensiva di infiltrazione nell’economia “legale” attraverso i propri capitali per rilevare aziende in crisi.

C’è da mettere in campo un intervento pubblico che rimetta al centro la sanità pubblica, scuola e università, il welfare e i servizi pubblici come il trasporto. Ci sono 172 miliardi pronti per il Paese: è un’occasione per salvarci dal disastro. E per farlo sarà necessario un vasto movimento popolare che rivendichi il diritto al futuro.

EDITORIALE – LA MAFIA NEL SISTEMA ECONOMICO: LA LOTTA COSTANTE COME MIGLIORE MEMORIA

L’edizione straordinaria del Tg3 di quel 23 maggio 1992 raccontò al Paese che la tregua era finita, una guerra era appena iniziata. Saltarono in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, i tre agenti della scorta. Salteranno in aria Paolo Borsellino il 19 luglio, poi nel 1993 gli Uffizi a Firenze, le chiese a Roma e quelle in via Palestro a Milano: altro sangue in quell’estate delle bombe.

Come si mantiene la memoria? Come si riconduce quella strage a un presente dove il Paese e il mondo mutano così rapidamente? Sono passati 28 anni ed è difficile oggi spiegare quei morti e quella guerra in un Paese che tende a separare gli anelli della catena di un passaggio storico che va dal 1992 alle elezioni del 1994: un cambio di potere e di scenari politici internazionali, con la fine della guerra fredda e gli albori della guerra globale permanente iniziata in Iraq nel 1991.

Una ricerca di Associazione DaSud ci racconta come a Roma gli studenti siano male informati sulle mafie che si stanno comprando mezza città, come ci racconta oggi Danilo Chirico su Sud Reporter. Il tema del racconto e dell’informazione è uno dei tasselli per capire il fenomeno. Lo ha detto ieri nel nostro Osservatorio Matteo Pezzino di Sos Impresa: serve il giorno per monitorare, analizzare, capire e informare perché le mafie arrivano prima delle istituzioni anche nell’emergenza Covid-19.

Non è possibile come ha detto Maria Falcone nell’intervista rilasciata a Taisia Raio che ancora oggi ci sono magistrati isolati come avveniva 30 anni fa.

La mafia è un fenomeno umano come diceva Falcone. Nasce nell’800 come guardia armata del padrone agrario che si evolve e diventa controllo del paese, della città, della regione e diventa internazionale fino ad oggi. Gli uomini a cavallo che tengono a bada i contadini o fanno strage il I maggio a Portella della Ginestra non ci sono più.

Oggi siamo di fronte a un’organizzazione raffinata, aggiornata e tecnologica che prima di sparare pensa e agisce anticipando anche le istituzioni: un fiume di soldi per inglobare le imprese prima di intimidirle, l’economia di capitale come bacino ideale per alimentare gli affari di fa traffici illegali e per corrompere.

Siamo di fronte a organizzazioni che non fissano più il problema a Corleone, Gioia Tauro o Scampia ma dentro Piazza Affari a Milano. È fondamentale seguire il flusso dei soldi nei business legati al traffico di droga, allo smaltimento dei rifiuti tossici e industriali e in tanti settori dell’economia italiana. Se i cento passi di Peppino Impastato conducevano alla casa di “Tano seduto” oggi si dirigono verso le banche di affari.

Bisogna individuare pensieri e azioni di quelle “menti raffinatissime” che nella zona d’ombra attraversano partiti, organi istituzionali, gruppi di potere. E bisogna chiedersi perché il leader del partito del Nord chiede che in questa emergenza venga sia abolito il codice per gli appalti, misura che serve a controllare le infiltrazioni mafiose nelle imprese che partecipano a gare pubbliche.

Serve anche la ricerca storica. Questo Paese ha bisogno di mettere un punto, fissare un paletto che spieghi alle generazioni che in quel biennio quella guerra non era solo mafiosa. Che dentro lo Stato come dentro l’economia la “separazione” dal male non esiste ma ci sono centri di potere che non rispondono alla Costituzione.

Qui non è più questione di lotta alla mafia ma di lotta e alternativa a un intero sistema economico. Serve l’impegno quotidiano di tutti, non servono eroi o martiri. In questo modo si onora la memoria di chi era rimasto solo, proponendo un nuovo approccio fatto meno di chiacchiere e di risposte ai bisogni sociali e culturali delle fasce più povere che trovano nei clan “riferimenti” per il governo del territorio. È una lotta per la democrazia contro la supremazia di una minoranza: nessuno si senta escluso.

 

EDITORIALE – IL PATERNALISMO DIDATTICO DELLO SCERIFFO CHE NON RISPONDE SULLA SANITÀ CAMPANA

Fratacchione a Fabio Fazio. Cinghialone a chi fa jogging. Lanciafiamme a chi fa una festa. E ancora “sei buono o sei scemo”, “imbecilli” e via con un cabaret da meridionale allo Zelig. Vincenzo De Luca ripresenta il vecchio soprannome di “professore” come ai tempi del Pci di Salerno quando era segretario scorbutico e decisionista. La sua comunicazione ha vinto in modo schiacciante tra l’ironia e la viralità social. Sfoggia un paternalismo didattico da vecchio professore di paese che bacchetta, rimprovera e elargisce battute ai suoi alunni-cittadini.

Nell’infodemia della paura al tempo del Covid-19 il suo messaggio è rassicurante e protettivo, ponendo l’accento sul facile moralismo dell’italiano medio che “resta a casa”: dagli all’untore cattivo responsabile dell’epidemia.

Vince De Luca, chapeau. Sui social seppellisce l’ex rivoluzionario a sindaco di Napoli doppiandolo nel numero dei fan e conquistando anche il cuore della top model Naomi Campbell. Bene, bravo, bis. Questa è la comunicazione, e poi? Cosa resta della politica? Resta una voragine chiamata sanità pubblica in Campania.

Le mancate risposte dello sceriffo virologo

La Campania passa come modello sanitario che ha evitato l’ecatombe nel messaggio del governatore: è proprio così? Non esattamente. I monologhi delle dirette social hanno evitato le conferenze stampe e con essi le domande dei giornalisti, salvo filtrare qualche domande dopo le proteste della categoria. La sanità campana vive uno stato di crisi del suo ruolo pubblico e quel che resta oggi è il centro Covid all’Ospedale del mare accolto con il giubilo e poi rimasto vuoto: senza personale e senza pazienti al costo di 7 milioni di euro.

E intanto negli ospedali come va? C’è il caso del pronto soccorso del Cardarelli dove mancano ossigeno, posti letto e vengono rifiutati i ricoveri. Ci sono le denunce del Forum Diritti e Salute su questo giornale per la situazione al Pascale sulla sicurezza dei pazienti e del personale. C’è la proposta inascoltata dei primari ospedalieri su come organizzare la fase pre e post Covid-19. Ci sono le visite ambulatoriali sospese e l’aumento del rischio che di fronte ai sintomi di una patologia la gente resta a casa con un infarto o un ictus. E poi la longa manus del business dei privati: l’esposto dei 5 Stelle alla Corte dei conti per gli accordi con i privati durante l’emergenza e l’aumento dei tamponi a carico dei cittadini.

In questo scenario non va dimenticata la questione Terra dei fuochi con la recentissima querela sporta dal professore Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute di Filadelfia in prima linea nella lotta al coronavirus con un team internazionale di scienziati e medici, assistito dal penalista Giovanni Siniscalchi, contro il governatore in difesa della professionalità dei ricercatori impegnati negli studi scientifici che fotografano i danni ambientali ed elaborano i dati su cui si basano le verità scientifiche. Sullo sfondo ci sono le lacune dell’Istituto zooprofilattico guidato da Antonio Limone che non ha ancora pubblicato i dati del biomonitoraggio. Istituto che in questi giorni ha subito il blitz dei carabineri sulla questione tamponi.

Un lungo elenco su cui il governatore deve rispondere, a cui si aggiungono le liste di attesa, lo stato in cui versa il 118 e i servizi di salute mentale. Sono questioni su cui non arrivano risposte nel merito ma reprimende da professore di paese contro gli stolti scolari che poco capiscono. Sono temi che su questo giornale abbiamo deciso di affrontare aprendo un dibattito sulla sanità campana facendo parlare medici, primari e chi ogni giorno si impegna per il rispetto dei diritti.

Caro governatore, avrà pure vinto la sua comunicazione ma si ricordi che in ogni “classe” troverà almeno un disobbediente al suo paternalismo didattico.

 

LA MARCIA DI PEPPINO TUTTA ANCORA DA PERCORRERE: L’OCCASIONE PER IL MEZZOGIORNO

Uno due dieci cento mille passi. Peppino Impastato veniva ucciso 42 anni fa e nella stessa giornata fu ritrovato il corpo di Aldo Moro. Due corpi, due vite che si portarono con sé un’intera epoca: il “il secolo breve” italiano tra il sogno rivoluzionario e la democrazia incompiuta.

Eppure oggi l’attualità di questo ricordo sta in un altro stravolgimento d’epoca: quella segnata dal Covid-19. Siamo in un Paese che ha ancora difficoltà a tenere salde le corde democratiche, pronto a farsi affascinare dal caudillo di turno in onda sulle tv e sui canali social. Siamo in un Paese dove i cento passi di Peppino, oggi, non conducono solo nella casa del boss ma anche nella sede di una banca o di piazza Affari.

Oggi Peppino vedrebbe un Mezzogiorno cambiato e completamente trasformato il fenomeno mafioso. Oggi la consapevolezza del pericolo e dell’essenza stessa del potere dei clan è pienamente entrata nell’opinione comune degli italiani.

“Le mafie sono il nemico peggiore per l’Italia che deve affrontare l’uscita dalla crisi sanitaria ed economica e potrebbero avvantaggiarsene nelle situazioni di maggiore difficoltà, inserendosi in quei settori che lo Stato non riesce a tutelare e proteggere”. In particolare è il 46% mentre l’81% pensa che la criminalità organizzata potrebbe avvantaggiarsi della crisi, inserendosi nei settori che lo Stato non riesce a tutelare e proteggere.

A queste percentuali si arriva grazie a una narrazione puntuale del fenomeno mafioso con le denunce che arrivano dalle associazioni e da giornalisti sempre in prima linea. È chiaro che, partendo proprio da Sud, questa consapevolezza debba diventare azione da parte delle istituzioni: come ha riferito al nostro giornale il senatore Sandro Ruotolo che si è recato in questura a Napoli.

Ciò che Peppino dovrebbe vedere coi suoi occhi è la piena saldatura tra mafie ed economia di capitale, soldi che arrivano dove non ci sono più soldi o che aiutano fare altri soldi. Seguire questo filo che parte dall’usura, dal racket, dal controllo territoriale e del mercato della droga fino a seguire la traccia di banconote che aprono le porte di banche d’affari, borse, imprese.

Sono i cento passi che non conducono più solo al balcone del boss ma al cuore stesso di un’economia pronta a rendere “legale” il colore dei soldi. La marcia di Peppino è tutta da percorrere come fa quel Sud solidale che in questi 2 mesi non si è mai fermato: ci racconta il ruolo della politica, il coraggio dei giornalisti e un Mezzogiorno che non deve arrendersi ai suoi nemici.

EDITORIALE – PRIMO MAGGIO PRIMA E DOPO IL COVID-19: LA POSTA IN GIOCO SU DIRITTI, LAVORO E IMPRESA